Articoli e Recensioni
Articoli e Recensioni
Articolo di Andrea Talmelli tratto da Lettera Internazionale n° 69 del 3° trimestre 2001.
Finita la sbornia ideologica delle avanguardie musicali del secondo dopoguerra, si può guardare oggi con più indulgenza alla musica italiana del ventennio fascista, certo non immune da contraddizioni, da incertezze, da involuzioni, ma anche ricca di fermenti, di idee e di personalità musicali che assurgono spesso a livello internazionale.
È appunto questa recuperata curiosità di scavare nella nostra storia che muove oggi tanto interesse anche intorno al nome di Aldo Finzi. Dobbiamo ringraziare l’Associazione Diacronia, nata per diffondere le musiche italiane composte tra le due guerre.
Che il clima della cultura musicale nell’Italia fascista fosse diverso da quello imperante nella Germania nazista è fuori discussione. Almeno fino all’asservimento del fascismo a Hitler e all’applicazione delle leggi razziali in Italia nel 1938. Arnold Schönberg, allontanato dall’insegnamento all’avvento di Hitler, emigra in Francia e poi negli Stati Uniti nel 1933, dopo essere tornato alla religione ebraica. Sorte analoga segna la biografia di altri illustri compositori. Si pensi ad Hanns Eisler, suo allievo, o a Kurt Weill, a Paul Hindemith, schedato nel catalogo dell’ “arte degenerata”. Ernst Krenek emigra negli Stati Uniti nel 1938, come Karol Rathaus, di origine polacca. La lista dei musicisti o degli artisti banditi dal regime nazista potrebbe continuare a lungo. Per non parlare di quelli, come Viktor Ullmann e Hans Krása, che furono assassinati ad Auschwitz nelle camere a gas.
I problemi vissuti dai compositori nell’Italia del ventennio non sono paragonabili a quelle vicende germaniche. Al di là di determinati espedienti a cui si ricorreva per evitare scontri indesiderati con il regime, e di qualche concessione nel senso di una conciliazione artistica e ideologica (del resto favorita da ambo le parti dall’intento di ridare un’identità nazionale alla nuova musica italiana), non si può dire che una certa libertà di espressione e un dibattito serio tra i compositori siano mancati in quegli anni.
Secondo uno studioso serio come Luigi Pestalozza, la Rivista Musicale Italiana era all’epoca l’espressione di un reale dibattito tra musicisti alla ricerca di una nuova identità nazionale.
Quanto alle vicende musicali nell’area mitteleuropea, si sa che a Wagner segue uno stuolo di compositori in linea di continuità con lui, che sviluppano la lezione romantica fino all’espressionismo, dalla tonalità dunque al metodo dodecafonico attraverso le tappe del limbo atonale. In Italia, invece, Verdi muore senza eredi. La modernità delle sue ultime opere infatti non trova facili seguaci. Il melodramma esprime ancora ottime individualità prima di impantanarsi nel convenzionalismo post-verista. La giovane scuola si orienta invece verso un nuovo strumentalismo, assente ormai dal Settecento. E i riferimenti non sono quelli della direttrice germanica.
C’era stata, è vero, l’esperienza dell’empolese Busoni, il compositore italiano di respiro internazionale più vicino alla cultura mitteleuropea, ma ora la musica italiana del primo dopoguerra guarda altrove. Negli anni in cui Schönberg tenta di superare lo stallo dell’atonalità, scrivendo le prime composizioni dodecafoniche (la Suite op.25 per pianoforte, il Quintetto a fiati op.26), la nostra musica segue altre strade più vicine al pensiero francese. Dallapiccola, che pure avrà un ruolo fondamentale nell’introdurre in Italia il metodo schönberghiano, così scrive ancora nel 1957 su Ravel: “Per la mia generazione Ravel è una figura cui si è guardato con infinita ammirazione e con intenso amore”.
Nei confronti di Schönberg, due spunti emblematici sono riportati da Luigi Pestalozza nell’Introduzione all’Antologia della Rassegna Musicale Italiana (1966), due saggi, contrastanti nei giudizi, separati tra loro da solo sette anni. Scrive Guido Pannain nel 1928: “Arnold Schönberg, musicista tormentato e tormentatore, molto pretese dal prossimo suo quando gli offerse ad ascoltare le sue ruminate e quintessenziate esperienze armoniche, ma molto pretese anche da sé medesimo quando si condannò alla fatica di Sisifo di sollevare oltre i limiti naturali il macigno della sua frusta personalità romantica”.
Del 1935 è il giudizio di Herbert Fleischer: “Schönberg è il Kant fra i musicisti. [...] Il fatto che nel tempo nostro tutto orientato verso il lucro un uomo di molte facoltà produttive eviti di proposito la via del successo e crei opere che esigono una nuova educazione dell’udito, e con ciò un mutamento completo del pubblico, è un’esperienza che per il suo coraggio esige la discussione su Schönberg”.
Commenta Pestalozza come la posizione di Fleischer per la prima volta offrisse “una valutazione responsabile dell’opera e della ricerca del grande viennese”.
Aldo Finzi è tra i giovani compositori inclusi nella III Rassegna Nazionale di musiche contemporanee del 1935, collegata al concorso indetto dal Sindacato Nazionale Fascista dei Musicisti, la cui Commissione selezionatrice era presieduta dal nume tutelare della scuola italiana: Alfredo Casella.
La rassegna, che aveva ormai acquisito una cadenza biennale, rappresentava dunque un buon trampolino di lancio soprattutto per i giovani autori, che avevano così l’onore di figurare accanto ai nomi di maggior prestigio del panorama musicale italiano.
L’edizione del 1935 si svolge dal 31 marzo al 6 aprile. Protagonista di questa ribalta è Gian Francesco Malipiero, allora cinquantatreenne e dunque nel pieno della sua ascesa artistica, con un Concerto per pianoforte e orchestra che la critica esaltò per la bellezza dell’opera che traeva forza dalla propria logica, dalle idee fortemente espresse e ben sviluppate, in modo lineare, e pulito: “un vero godimento”. Ma nei programmi figuravano altri nomi di spicco: Luigi Dallapiccola (Due cori di Michelangelo Buonarroti il giovane), Goffredo Petrassi (Concerto per orchestra), e poi Riccardo Zandonai, Mario Castelnuovo-Tedesco, Giovanni Salviucci, Vittorio Rieti, Riccardo Nielsen, Giulio Cesare Sonzogno, figlio dell’editore Renzo che presentava Il Negro, due tempi per violoncello e orchestra. Quindi uno stuolo di altri giovani musicisti tra cui Nino Rota, Pietro Montani, il futurista Balilla Pratella, Adone Zecchi, Ettore Desderi, Renzo Bossi.
Dell’esordiente Aldo Finzi fu eseguito L’Infinito, un delicato poema sinfonico scritto due anni prima, di vaga ascendenza wagneriana. Il critico bolognese Roberto Zanetti, però, sottolinea una certa estraneità di questo lavoro al mondo leopardiano. Del resto le ragioni di questa estraneità si possono facilmente ricondurre alle circostanze della composizione, diverse da quella per la quale Finzi ricevette un Premio al Concorso Nazionale di Pesaro per le onoranze a Leopardi. L’ispirazione del lavoro stava altrove, nelle favole di Rostand, precisamente nella favola drammatica Chantecler, quella del gallo innamorato della pavona.
Che Aldo Finzi fosse esordiente alla rassegna del 1935 non significa che non fosse già ben conosciuto come compositore avviato a figurare tra i protagonisti della giovane scuola italiana. Infatti, il compositore milanese di origine ebraica a soli ventiquattro anni era tra gli autori editi da Ricordi dopo esserlo stato per Fantuzzi e Sonzogno. Gli anni Trenta vedono fiorire, oltre alle rassegne romane promosse dal Sindacato Musicisti, altre mostre e festival importanti. Basti pensare a quelli veneziani, avviati dal 1925, a quello di Siena del 1928, o di Firenze, promossi dalla SIMC. A Venezia, Finzi era presente, come attestano le sue recensioni per riviste specializzate. Ma Aldo Finzi ebbe anche il compito di revisore di un’opera importante del passato, la Cantata del Caffè di J. S. Bach, una cantata profana del 1731, appartenente al genere burlesco, il cui libretto è uno dei migliori di Picander. Secondo Schweitzer questa cantata “ha lo stile e le caratteristiche di quelle di Offenbach” e “senza nessun cambiamento se ne potrebbe fare un’operetta in un atto”.
I bozzetti del Caffè sono del Gruppo Nuovi Scenografi di Milano.
Gli orientamenti e i gusti della giovane scuola musicale appaiono già nelle scelte compositive di Finzi, che prediligono il lavoro orchestrale, nella forma del poema sinfonico. Oltre il citato L’Infinito, a cavallo degli anni Venti e Trenta, a Firenze furono eseguiti, nei concerti del futuro Maggio Musicale fiorentino, Il Chiostro, per voci femminili e orchestra, Cirano di Bergerac (composto nel 1924 per il Concorso Ricordi e segnalato da una Commissione di cui pare facessero parte anche Toscanini, Alfano e Pizzetti) e Inni alla notte, per sola orchestra. A dirigere questi lavori era un direttore di fama come Vittorio Gui, che proprio in quegli anni, nel 1928, aveva fondato l’Orchestra stabile di Firenze. La critica mise in rilievo il successo attribuito a Finzi. Infatti, in un articolo del 29 gennaio 1929 apparso su La nazione a proposito del Cirano, si evidenzia l’inizio “squillante e fragoroso” che evoca reminiscenze dei poemi straussiani, ma anche, più avanti, una condotta di scrittura più personale: “sorge l’idea di un Finzi ortodosso assai e fervente ammiratore dei classici maestri dell’Orchestra, pur nella sua modernità”.
Ma poemi sinfonici sono anche i successivi lavori: la Sinfonia romana “Nunquam”, del 1936, e l’Interludio per orchestra da camera, del 1937, eseguito al Teatro di Torino per la direzione di La Rosa Parodi.
L’adesione di Finzi ai modelli e al gusto neoclassico italiano si conferma alle prime impressioni d’ascolto. Si avverte il clima del descrittivismo respighiano e la mano felice che disegna affreschi di solida e brillante orchestrazione. Nelle sue opere, inoltre, si riconoscono altre influenze. In primis, una predilezione, mediata pure dalla scuola italiana, per l’esperienza d’oltralpe di Casella verso gli autori francesi. (Negli ultimi anni della sua vita, Finzi si dedicò alla versione ritmica italiana delle Beatitudini di Franck.)
Anche nelle liriche per canto e pianoforte sono riconoscibili, tra richiami crepuscolari, le raffinatezze d’armonia tipiche d’oltralpe.
Ma ci si sbaglierebbe se si volesse ricondurre la musica di Finzi a questo o quell’esponente della musica francese, a Franck più che a Debussy, a Fauré più che a Ravel, o escludere dal suo mondo contaminazioni della cultura mitteleuropea. Il linguaggio di Finzi è ecclettico, proprio in ragione delle esperienze diverse che direttamente o indirettamente coltiva, delle conoscenze che assimila e incanala verso una ricerca tutta personale, come si può constatare in alcuni lavori di tipo cameristico.
Consideriamo la Sonata per violino e pianoforte, opera giovanile del 1919, recentemente ripubblicata e riproposta in un programma radiofonico dedicato a Finzi, la cui prima esecuzione avvenne nel 1926 a Milano, all’Università Popolare, in un concerto inserito in un ciclo beethoveniano che aveva nel Quartetto Poltronieri e nel pianista D’Erasmo gli illustri protagonisti. Il rapporto di Finzi con Poltronieri si concretizzò con la prima esecuzione, sempre nell’ambito dei concerti milanesi all’Università Popolare, del Quartetto per archi, che rappresenta forse una delle sue opere più interessanti. Tra i due lavori c’è sicuramente un certo salto di qualità che denota il cammino intrapreso da Finzi nella sua vicenda compositiva. Anche in questo caso, l’autodidatta Finzi non aveva un modello stilistico di riferimento che lo collegasse in modo esplicito a questo o a quel compositore (pur ritrovandone echi di diversi nelle sue opere). Entrambi i brani hanno la capacità di suscitare l’attenzione del pubblico: infatti, il fluire del pensiero musicale è affidato da un lato alla solidità formale delle due opere, e dall’altro al possesso delle tecniche di elaborazione delle idee (con tutti gli artifizi e le risorse proprie del “mestiere”) – idee che si alternano, talvolta in modo inaspettato, in una trama discorsiva logica, serrata e coinvolgente.
C’è forse più gusto francese nella sonata: nel disegnare luminosi arabeschi impostati su garbati diatonismi (si veda l’iniziale tema del violino), frammenti pentatonici ed esatonali, sobrie intrusioni nel fascinoso mondo della politonalità, arpeggi per quarte, accordi sventrati, statiche armonie ridondanti di dominante, note sfuggite, plastiche successioni di seconde maggiori, ondeggiamenti e fluttuazioni ritmiche perseguite con il semplice artifizio dell’emiolia. E anche il modalismo, quando appare, non significa adesione a facili mode ricavate sui modelli del nostrano accademismo musicale.
Accanto a tutto questo, ecco che, a partire da una rigorosa conduzione armonica avvertita da Finzi come in ogni caso inevitabile per la comprensione della costruzione musicale, sembra affacciarsi un altro mondo, forse più affine all’espressionismo atonale. Un mondo statico e uno dinamico sembrano dunque confrontarsi. Frammenti melodici fondati su successioni di seconde minori, salti espressivi di recupero di settime maggiori o intervalli eccedenti e diminuiti, più esposti soprattutto nel terzo tempo della sonata, creano all’interno della stessa opera quell’alternanza di tensioni e distensioni, di addensamenti e rarefazioni della texture che la sapiente disponibilità di Finzi sa plasmare in un discorso agogicamente corretto, accattivante, personale. Nella sonata, lo strumento ad arco viene utilizzato in maniera abbastanza semplice, ma è sfruttato timbricamente in tutta la sua estensione, sino alla regione più acuta rigorosamente raggiunta (tranne forse in un caso) per gradi o progressioni.
Nell’affrontare almeno una decina di anni dopo la forma del quartetto Finzi dimostra dunque di aver già compiuto un proprio percorso e con un certo coraggio assume un impegno alquanto insolito per i compositori italiani dell’epoca. Questa forma è tipicamente mitteleuropea; si pensi a cosa è stato il quartetto da Mozart a Schönberg, proprio a Vienna, centro irradiante di un’area culturale generosissima nel coltivare questo genere, un’area che si spinge dai paesi di lingua tedesca alle periferie ungariche dove nel Novecento spiccano sovrani il nome e la ricerca di Béla Bártok.
Altrove il quartetto trova più arduo accesso e minor dedizione. Gian Paolo Sanzogno, che tanti meriti ha nella riscoperta, nella rilettura e nelle proposte di riascolto di musiche di Finzi, ben dice quando, in sede di presentazione discografica del Quartetto, ricorda che “la forma classica del Quartetto può rappresentare un problema di tanto ardua risoluzione che compositori del calibro di Debussy e Ravel ne fecero uno solo nella vita e altri (Beethoven, Bártok) ne fecero specchio e fucina di tutti gli esperimenti e le scoperte nell’arco intero della loro produzione”.
I musicisti del primo dopoguerra si tengono piuttosto lontani da questo genere, con qualche rara eccezione (Pizzetti, Petrassi, Malipiero). Invece Finzi riesce a reggere una forma così ardua per circa quaranta minuti dimostrando quanto profonda sia la sua ricerca. I quattro strumenti hanno spesso una intercambiabilità di ruoli negli spunti tematici che sono alla base dei ricchi e continui sviluppi.
Finzi alterna nel Quartetto episodi omoritmici ad altri di complessa trama polifonica, unisoni di perentoria e drammatica declaratoria (come al n. 18 del secondo tempo) e passi di raffinato contrappunto spinto fino al canone (n.27), lunghi episodi sorretti da progressioni mai stucchevoli con frasi interrotte e balbettii che includono strutturalmente insoliti e improvvisi silenzi. Dunque, momenti di accumulo tensivo altamente drammatici e attimi di cullante e più distesa espressività. Il materiale è ancora organizzato sui principi dell’armonia tonale con le sue scale, le sue armature di chiave, modulazioni e improvvise transazioni – e Finzi mette anche qui la sua quasi pignola osservanza accademica nelle scelte delle opportune alterazioni di note – ma il tutto è spinto ai confini della percezione tonale. Solo il piano discorsivo e le sue esigenze potrà dirci dove classificare ancora un’ambientazione di tipo tonale, chiara e distesa o, di contro, il profilo nuovo e inquieto di una atonalità solo apparente, perché organizzata all’interno delle convenzioni armoniche.
Dal punto di vista ritmico le innovazioni introdotte da Finzi rispetto alla sonata sono di particolare interesse: dalla semplice emiolia si passa a episodi di multi/poliritmia (o metria). Egli, comunque, sa benissimo che per ottenere una complessa trama ritmica può essere sufficiente la più semplice (e tradizionale) dislocazione di accenti, la dislocazione del suono nei ribattuti o, ancora, l’uso sapiente di sincopi e contrappunti.
Si possono allora ricavare alcune considerazioni riassuntive sul lavoro compositivo di Aldo Finzi: il possesso di un corredo tecnico che informa un ottimo artigianato; la propensione a un linguaggio complesso, ma mai inutilmente ridondante, anzi al contrario asciutto, essenziale e teso a sottolineare una forte componente lirico-espressiva della sua musica; l’appartenenza dell’estetica di Finzi a territori e orizzonti aperti a più importanti problematiche intorno al comporre, che recuperano anche contatti e convergenze con la cultura postromantica europea (si pensi al lirismo di Berg o alle questioni timbrico-ritmiche sollevate da Bártok). Tutto ciò fa di Finzi un autore di respiro non solo italiano.
È chiaro che la morte di Aldo Finzi, a soli 48 anni, non ci permette di sapere come sarebbe stato il suo cammino compositivo e líevoluzione del suo pensiero musicale. Certo le sue vicende dolorose hanno privato il nostro paese di una figura di musicista tra le più interessanti di questa generazione.
L’avvento delle leggi razziali sembra essere all’origine della mancata realizzazione alla Scala della sua opera La Serenata al vento, su testo di Veneziani, con cui si era presentato al Concorso indetto da quel prestigioso Teatro nel 1937.
La confidenziale ammissione di Riccardo Pick Mangiagalli, direttore del Conservatorio di Milano e membro della giuria, sull’esito e la vittoria di Finzi, rimase lettera morta. Nessun’opera vincitrice del Concorso venne rappresentata nella primavera del 1938 alla Scala. E qui entriamo invece in quella spirale di fatti drammatici della biografia ripresi dall’interesse suscitato soprattutto dopo il 1997, anno del centenario della nascita. Il cuore di Finzi alla fine non ha retto. Anche la possibilità di emigrare negli Stati Uniti, a seguito di contratti di lavoro avuti da Chicago, sfortunatamente venne meno . Finzi lavorò anche sotto altro nome, riuscì a sfuggire all’arresto. Ma alla fine fu lui ad arrendersi.
Il concerto per orchestra Danza (1937-38), l’opera drammatica Shylock (1939-40), e il Salmo per Coro e grande Orchestra (1944-45) sono gli impegni più importanti dell’ultimo periodo, insieme ad alcuni brani per organo. E il Salmo viene considerato un po’ il testamento musicale di Aldo Finzi. Una preghiera. Il ringraziamento a Dio per aver preservato la sua famiglia dallo sterminio. Un affresco corale cantato a piena voce, sostenuto su tessiture alte e sonorità forti, un inno di gioia che sembra voler rimuovere dal pensiero quotidiano la ben diversa realtà.
Andrea Talmelli
Articolo pubblicato sul n° 69 di
Lettera internazionale, 3° trimestre 2001 www.letterainternazionale.it
sabato 15 settembre 2001
Mitteleuropa in Italia - Il caso Finzi