Articoli e Recensioni
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Commento a cura di Gian Paolo Sanzogno nel libretto di sala della 1ª esecuzione assoluta di “Come all’ultimo suo ciascun artista” tenutasi il 3 dicembre 2001 al Teatro Carcano di Milano.
"Apoteosi del canto" verrebbe fatto di definire il poema di Finzi, parafrasando l’espressione di Wagner in merito alla "Settima" beethoveniana. Ed in effetti forse mai come in questo lavoro l’autore profonde tutti i tesori della sua fervida immaginazione in un desiderio di melodia.
La struttura generale è peraltro assai salda e vale a contenere i possibili eccessi mentre il compositore sa variare il suo materiale con arte sapiente, distribuendolo equamente lungo tutta l’estensione del poema.
Quando il filo sottile del "mi" sopracuto del violino-solo conclude il brano, si ammira retrospettivamente il cammino compiuto - dal primo motivo degli archi e dei corni (in seno ad un "Canto" introduttivo che si dipana sommesso e giunge in crescendo agli esiti più clamorosi della piena orchestra, mediante l’impiego progressivo di sempre nuovi strumenti), al "Calmo" (uno dei momenti più alti del lavoro, una melodia dei violini di quelle non facilmente dimenticabili, che Finzi ripete, variata, nei diversi momenti dello sviluppo, dandole volta a volta connotazioni diverse), al "Mosso" (che presenta un tema caratteristico del Finzi sinfonista, affidato ai bassi e dalle sembianze cavalleresche che ne temperano l’aggressività).
Movenze di danza, infine, quasi valzer, nel "Sempre meno mosso" che sfocia in una sorta di "Scherzo", caratterizzato da una scrittura cameristica che mette in rilievo i colori delle arpe e del pianoforte, mentre il tema lirico ritorna spesso come un ricordo a tenere assieme un tessuto riccamente variegato. Poi tutto si placa poco a poco ed il motivo d’inizio ritorna nel finale disteso, rasserenato. Altro tratto, questo, tipico di Finzi, che ama spesso concludere il lavoro in "pianissimo", quasi immagine di un approdo desiderato dopo tante straordinarie peregrinazioni.
Finzi non diede titolo al suo poema.
La sorella Matilde, presentandolo postumo ad un concorso, scelse come motto questo verso di Dante (Par. 30°, v. 33) dando però a quel "ultimo suo" non già il significato dantesco di "estremo limite" (cui giunse peraltro in parte) oltre il quale la sua arte non può andare, ma piuttosto quello temporale di termine della vita. Quella, appunto del fratello che non ebbe a vedere l’esecuzione del suo lavoro.
lunedì 3 dicembre 2001
Come all'ultimo suo ciascun artista