Articoli e Recensioni
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Articolo di Gian Paolo Sanzogno apparso sul numero 139 di novembre 1999 de «L’Opera»:
E' suonata l’ora della rivalutazione per Aldo Finzi, compositore ebreo che fu prossimo a vincere, con la sua «commedia giocosa», alla vigilia della promulgazione delle leggi razziali, il concorso che il Teatro alla Scala aveva bandito per una nuova opera.
La «Serenata al Vento » di Aldo Finzi: una ingiustizia da riparare!
y « ...va, serenata al vento, senza svelar che il canto cela un desìo di pianto per l’intimo tormento... »
L’undici febbraio 1936 andava in scena al Teatro alla Scala Il campiello di Wolf-Ferrari, direttore Gino Marinuzzi, cast «stellare»: Mafalda Favero, Margherita Carosio, Iris Adami Corradetti, Giuseppe Nessi, scena unica coloratissima e solare di Pieretto Bianco che si può ancora ammirare nell’ormai introvabile volume che la Scala fece pubblicare nel 1946 (1). Appena sette anni prima Toscanini aveva diretto, oltre a Fidelio, anche Falstaff e Maestri Cantori (2) in quella che doveva essere la sua penultima stagione scaligera prima della guerra. Nel dicembre dello stesso anno, aderendo ad un invito di Bronislaw Hubermann, si recò in Palestina (Gerusalemme e TelAviv) a dirigere la prima orchestra israeliana e fu tanto commosso dalla nuova vita delle terre che visitava da affermare: « Qui, in Palestina, ho trovato il paese dove posso essere solo l’uomo come lo concepisco io » (3). Questo il tempo e il luogo nei quali un compositore ebreo, alla soglia di quelle leggi razziali che avrebbero cambiato volto al panorama musicale italiano si accingeva a musicare un libretto di Carlo Veneziani, una «commedia di costume» saporita e sospirosa, maliziosa e divertente, dove la satira garbata si sposava all’arguzia pungente, di quella arguzia «che crea l’arguzia degli altri», a dirla con Falstaff. Il compositore era Aldo Finzi, l’opera, La serenata al vento. °°° Campiello, Falstaff, Maestri Cantori, Toscanini e la Palestina: donde nascano le prime idee di un musicista, quali ingredienti assorba dall’atmosfera circostante, quanti stimoli infine lo portino ad una determinata scelta stilistica è argomento interessante di riflessione ove si ponga mente al fatto che scrivere commedie in musica è ben più arduo che scrivere tragedie - che di tragedie o tragicommedie pullulava la produzione operistica di quegli anni - e che la comicità era ferma al Gianni Schicchi pucciniano (1918) che tale comicità variegata di tagliente ironia (per non dire altro) e l’esempio sommo del Falstaff erano ormai lontani e legati ad una sorta di irripetibilità che scoraggiava chiunque volesse cimentarsi sullo stesso terreno. Wolf-Ferrani però ci si era provato e con successo, coniugando felicemente Goldoni e il Teatro in Musica, ripetendo cioè l’operazione cimarosiana e immettendo nuova linfa di modernità in partiture quanto mai aggiornate e spigliate che nascondevano sotto l’apparente facilità un processo compositivo assai complesso e articolato. L’esempio era lì, a portata di mano, in quel 1936 appunto con Il campiello che Ghisalberti aveva tratto da Goldoni e che alla ben collaudata commedia di costume (I gioielli della Madonna, Sly, Il segreto di Susanna) univa una vena sentimentale e sospirosa (l’ « Addio a Venezia ») che sarà piaciuta moltissimo a Finzi, creatore di suo di Arie da camera soffuse di nostalgica mestizia e orientate stilisticamente verso un lirismo cui lo portava la sua natura sensibile di musicista colto. Se Wolf-Ferrari era riuscito a fondere la sua tecnica di scuola tedesca con una cantabilità tipicamente latina, l’esempio preclaro dei Maestri Cantori dimostrava come si potessero trattare alcuni momenti di un’opera ben altrimenti impegnata con uno « stile di conversazione» di carattere leggero e scorrevole - che sarà poi l’arma vincente di Puccini, «mutatis mutandis». Il viaggio di Toscanini in Palestina, la nascita della prima orchestra di Israele sotto la direzione del nostro più celebre direttore avrà influito positivamente sul giovane Finzi, motivo di legittimo orgoglio e stato d’animo ben propizio al « musicar leggero», divertendosi e divertendo. Già lo spiritoso libretto del Veneziani contribuiva al successo dell’impresa, resa appetibile dalla possibilità di muoversi liberamente in uno spazio teatrale, quello della «commedia giocosa » da sempre aperto ad ogni tipo di sperimentazione - fatti salvi comprensibilità del testo e comunicabilità della musica - da Rossini in poi croce e delizia dei compositori: Finzi si serve di un linguaggio liberamente «atonale», non nel senso di aderenza a scuole o movimenti che della atonalità si facevano proprio in quegli anni propugnatori, ma come rinuncia all’impianto tonale (soppressione degli accidenti in chiave). Il fatto centrale, l’avvenimento intorno al quale ruota tutta la vicenda, quella serenata che una voce sconosciuta intona dietro le quinte, se è luogo tipico del melodramma, dall'Otello rossiniano (Canto del «gondoliero») al Rigoletto (canzone del Duca), dalla Salome (Iokanaan) alla Tosca (Cantata di Floria ), è qui riproposto enigmaticamente - chi sarà il cantore? - ponendo all’ascoltatore un interrogativo dal chiarimento del quale dipende tutta la vicenda. Donde la comicità di una situazione in cui tre personaggi, diversamente motivati, si attribuiscono la paternità della serenata che poi si saprà cantata dal furiere Pistola solo a conclusione dell’opera, quando ormai non interessa più conoscerne l’autore e la vicenda è già risolta. Un effetto di «suspense » assai abilmente giocato e tenuto sempre vivo dalle continue, incalzanti indagini da parte di un collerico Colonnello e da un non meno collerico Maresciallo di Francia. Il Colonnello Dagoberto appunto, severo e autoritario padre della bella e capricciosa Loly (pronuncia «Lolì ») ormai in età da marito, che la Marchesa di Mavhalas vorrebbe dare in moglie a suo figlio Severino, che non ci pensa neppure, mentre il cugino Raimondo la corteggia invano e il precettore Leandro la affatica di lezioni sulla storia e sulle buone maniere... Loly che vorrebbe per sé una vita diversa, sognatrice com’è e disinibita: quando Leandro si mette in pasticci seri intrecciando una relazione con una vicina di casa - la contessa Geltrude, moglie del conte Alcidio - la fanciulla impietosìta poiché sa che il precettore perderebbe il posto e non potrebbe più aiutare la madre malata, lo aiuta ad evitare uno scandalo assumendo su di sé ogni colpa e fingendo che l’ipotetico suo... amante sia il conte Alcidio - che non c’entra nulla, è solo un marito corbellato - il quale, al colmo dello scandalo generale e della indignazione del Colonnello si rivelerà essere un Maresciallo di Napoleone, con effetto non dissimile dal « coup de théatre » di Lindoro, nel Barbiere, quando dichiara di essere il Conte di Almaviva. Loly e Leandro, quando sembra che tutto sia perduto -la ragazza mandata in un convento, secondo le migliori tradizioni del melodramma, e Leandro licenziato e sfidato a duello da tutti come d’Artagnan - si scoprono d’un tratto teneramente innamorati avviando alla soluzione l’ingarbugliata vicenda della serenata di cui Pistola si confessa infine autore all’indirizzo della servetta Finetta. Il tutto si svolge in una non meglio precisata Montappiè, luogo che sa di favola popolare, che potrebbe essere Piedimonte (Cassino) o meglio Piè di monte, cioè Piemonte ma importa pochissimo poiché tutto si gioca sul filo tenue ed elegante della schermaglia amorosa, della ripicca maliziosa, del dialogo saporito e scoppiettante e lo scenario potrebbe essere benissimo un altro e il tempo un altro ancora (ma l’anno è indicato come il 1810, apogeo dell’Impero).
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Ai due giovani Loly e Leandro sono affidati i momenti più liricamente intensi dell’opera, Loly soprattutto, protagonista assoluta, beneficia della grande aria del finale I, « Giudicate un po’ voi » che per importanza si può paragonare all’Aria del Fumo del Segreto di Susanna, e dell’ampio racconto del terzo atto, « Una notte di magigio » mentre nel corso dell’atto secondo ha pure notevole risalto il suo cantabile « L’uomo di questa notte ». Leandro apre il terzo atto con l’aria « Mi troveranno morto » e con Loly dà vita alla pagina più ampia dell’opera, il lungo, estenuato e carezzevole duetto d’amore del finale III, ben trentasei pagine di spartito, culmine del lavoro e insieme la sua catarsi, ove tutto si risolve nel « lungo bacio» dei due innamorati. Ad entrambi la parte offre momenti di vero virtuosismo vocale, arditezze di intervalli inconsueti, acuti scoperti, varietà di accenti: Loly tocca il do sopracuto e spesso il si naturale e il si bemolle - addirittura al suo primo apparire, «gaia e fanciullesca», lancia appunto un pericoloso si bemolle - ma Finzi, che scriveva pensando alla Scala e alla possibilità di venir eseguito in quel teatro avrà accarezzato, come è logico, l’idea di affidare la parte ad un grande soprano, ed erano tanti all’epoca, come dimostra il « cast » del Campiello ricordato all’inizio. Tutta la tessitura della voce, con episodi da «soubrette» - la schermaglia iniziale con Severino - fino al registro da soprano lirico del terzo atto, passando attraverso momenti quasi veristici di canto spiegato, viene da Finzi impiegata a sottolineare i vari stati d’animo della ragazza, da un lato remissiva e dolce, dall’altro ribelle capricciosa e cattivella, il tutto temperato da una reale bontà. Leandro, il tenore, si muove su ben altro terreno, dapprima precettore pedante ed impacciato - un ricordo del Lindoro travestito da maestro di musica, ancora Rossini! - poi libertino audace a caccia di femmine, e infine innamorato sospiroso e malinconico non privo però di velleità guerresche nell’accettare la sfida che da più parti gli viene lanciata: un personaggio così variegato richiede un trattamento altrettanto articolato e Finzi ne tratteggia i contorni con abile introspezione, rendendolo credibile per lo meno nei limiti che il melodramma pone da sempre e che, come si sa, sono ben più ampi di quanto accada nella vita reale. Il Colonnello Dagoberto, basso buffo, tipo del militare tutto d’un pezzo, bacchettone moralista con il paraocchi, burbero e altezzoso, dotato d’intelligenza modesta e di grande supponenza, vagheggia per sua figlia un matrimonio tranquillo e subisce il trauma inaspettato di scoprire - dice lui - Loly colpevole di condotta peccaminosa: cieco fino all’ultimo di fronte all’evidenza si lascerà commuovere solo dalla notizia dell’avvenuta promozione e perdonerà i due giovani. Insieme con il Colonnello, il Conte Alcidio forma una bella coppia di voci gravi a contrappuntare umoristicamente, con la loro burbanza un po’ patetica, i gorgheggi e le volatine di Loly (Alcidio finisce per apparire la pietra dello scandalo ma sarà lo scioglitore del complicato intreccio con l’autorità del suo grado). Gli altri personaggi formano in qualche misura il Coro, alla guisa dei parenti di Buoso Donati nello Schicchi: la coppia dei cugini di Loly Raimondo (baritono) ed Elvira (mezzosoprano), la Marchesa di Mahvalas (contralto) - si noti il doppio senso del buffo cognome... - e il figlio Severino (tenore), tutti coinvolti a diverso titolo nel « tenebroso affare » della serenata: cavallerescamente Raimondo e Severino si autoaccusano di essere loro gli amanti di Loly quando, insieme con Leandro asseriscono essere i proprietari del cappello, trovato, con le scarpe, sul balcone della ragazza: scena buffissima poiché il cappello è chiaramente di Leandro - smarrito nella frettolosa fuga dalla stanza della Contessa - ma nessuno si accorge dell’evidenza! Geltrude, moglie di Alcidio e amante di Leandro (soprano) ha un qualche rilievo nella scena della caviglia slogata, incidente che mette praticamente in moto la commedia degli equivoci (i coniugi cercano aiuto in casa di Dagoberto ed è lì che Leandro si invaghisce della Contessa). Come Elvira, cugina di Loly, rientra in seguito nel « coro » dei personaggi di fianco. Infine la coppia Finetta-Pistola (soprano e tenore) appartiene alla fitta schiera dei servitori tutto fare, zelanti e un po’ impiccioni, confusionari e affezionati, che il teatro d’ogni tempo e paese ci ha assiduamente riproposto: meno importanti di altri famosi colleghi hanno però il compito di sveltire l’azione, introdurre garbatamente i nuovi venuti (commentando con i tipici «a parte ») aprono l’opera con un delizioso duettino e intervengono anche non richiesti quando la situazione si fa corale e il concertato delle voci accresce la sensazione di scompiglio (finali I e III). Con una soluzione si vorrebbe dire « pirandelliana », tutti si immobilizzano alla fine di ogni atto e rivolti al pubblico esclamano: « Signori, quadro!» (cfr. la «risata» con cui si chiude ogni atto di Così è (se vi pare), 1917). L’opera, assai accattivante sul piano scenico e di indubbia presa sul pubblico per l’abile mescolanza di ingenuità e tragicommedia, fantasia e realtà, presenta una partitura assai complessa e sfaccettata, piena di finezze e di esecuzione non facile se si vuol rispettare il tocco leggero, lo « charme » dell’ispirazione di Finzi e soprattutto ove non si trascuri l’atmosfera di garbata ironia con la quale l’autore circonda affettuosamente le sue creature, quel tono fra serio e faceto che sembra volerci invitare a non prendere le cose troppo alla lettera, ché la commedia giocosa richiede solo « un poco di scienza e un po’ di cuore» - ma l’impegno è pur sempre totale e la scrittura, sia vocale che orchestrale, va indagata fino in fondo a comprendere appieno tutte le innumerevoli sfumature. Inoltre Finzi - come sempre - rinuncia a precisare per mezzo della indicazione metronomica la scansione esatta dei suoi tempi (come avviene in Wagner) e occorre dunque penetrare la sua musica, impresa mai semplice nei confronti di un artista che «pensa e scrive difficile » anche se in ultima analisi è sempre il risultato artistico quello che conta e che è di alto livello. Nel 1945, anno della prematura scomparsa di Finzi, Giulio Confalonieri scriveva: «Oggi la musica moderna rigetta il concetto romantico di «genio» e quello miraco lista di «personalità». Colui che compone è un osservatore, piuttosto che un creatore...»4. E osservatore finissimo delle debolezze umane fu Finzi nel ritrarre affettuosamente i suoi personaggi in un ambiente borghese nel quale, sotto l’apparenza della burla bonaria, aleggia inquietante un’atmosfera di ribellione nella figura di Loly, bella e coraggiosa ragazza, che lotta contro il padre reazionario, i parenti e i conoscenti codini in nome di una libertà conquistata anche a prezzo del sacrificio personale; una libertà che anche l’artista rivendica proprio quando le note vicende storiche di quella libertà dolorosamente lo priveranno, consegnandolo incolpevole nelle mani del Nemico: ma ora egli intona la «sua» serenata al vento che sta cambiando e porterà tempesta, estremo anche se non ultimo canto d’amore e di allegria, prima del silenzio. Aldo Finzi presentò la Serenata al vento al concorso che il Teatro alla Scala bandì sul finire del 1937 per un’ opera nuova da presentare nella stagione successiva. Nel corso delle valutazioni il maestro Mangiagalli, autorevole membro della giuria, avvicinò confidenzialmente il giovane compositore complimentandosi, in via riservata per la vittoria ormai certa. Ma il 1938 era alle porte e divenne tristemente famoso per la promulgazione delle leggi razziali: ll concorso fu annullato e il materiale disperso. Una recente indagine effettuata presso gli archivi del Teatro alla Scala non ha rivelato traccia dei molti spartiti presentati. L’attuale scoperta e rivalutazione dell’opera sembra volere riparare ad una palese ingiustizia nei confronti di un musicista che aveva evidentemente scelto male il momento per... vincere un concorso. Gian Paolo Sanzogno 1 «La Scala, 1778-1946, ed. Saturnia, 1946, pag. 199. 2 Nella stagione 1928-1929 Toscanini diresse alla Scala Otello, Forza del destino, Fra’ Gherardo, Parsifal, Lucia, Maestri, Il Re , Pagliacci, Aida, Germania, Falstaff, Manon Lescaut. 3Toscanini e la Scala, ed. della Scala, 1972, pagg. 295-296. 4v. Giulio Confalonieri, Bruciar le ali alla musica, pag. 309, Rizzoli ,Milano, 1945.
lunedì 15 novembre 1999
Il tenebroso affare della Serenata al vento