Articoli e Recensioni
Articoli e Recensioni
Da “La rivista illustrata del Teatro alla Scala” n° 17 - 1992/1993, a cura di Gian Paolo Sanzogno.
Quando la prassi esecutiva odierna, specchio fedele delle tendenze del gusto, ha quasi cancellato dai programmi dei teatri i nomi di autori illustri del ‘900 italiano (per cui l’apparizione di un titolo di Dallapiccola o di G.F. Malipiero è fatto ormai raro), non dobbiamo meravigliarci se compositori poco noti o del tutto sconosciuti subiscono una sorte peggiore. Mentre la conoscenza delle loro opere consentirebbe, con la pratica viva dell’ascolto, di colmare lacune storiche di non poco conto. Il caso del musicista milanese Aldo Finzi (1897-1945) è esemplare al riguardo: nell’oblio totale in cui la sua produzione è caduta è evidente l’affrettata liquidazione di valori autentici quando la presenza viva dell’autore non è più lì a farne diretta testimonianza con il carisma della sua personalità; e quanto più grande essa era, tanto più rapido è il declino dopo la morte.
Musicista di prim’ordine, nutrito di cultura europea al punto da rendere problematica la sua appartenenza a questa o quella tendenza, di religione ebraica quando ciò significava drammatici conflitti, non solo interiori, Finzi ebbe il coraggio di non allinearsi con nessuna delle tendenze allora dominanti maturando appartato un linguaggio aristocraticamente personale. Era nato a Milano da antica famiglia ebrea originaria di Mantova e aveva compiuto gli studi classici al “Parini”, laureandosi poi in giurisprudenza a Pavia; coltivava contemporaneamente il prediletto studio della musica seguendo la sua vocazione e la tradizione familiare (una zia, sorella del padre, fu il celebre soprano Giuseppina Finzi Magrini di cui tanto parla Leone Sinigaglia), fino a conseguire il diploma di composizione a Roma. Iniziò con successo a comporre: a soli 24 anni era uno degli autori di Ricordi, che gli pubblicò insieme con Fantuzzi e Sonzogno, fra il 1921 e il 1937, diversi lavori sinfonici (Cyrano de Bergerac, segnalato in un concorso della cui commissione facevano parte Toscanini e Pizzetti), L’Infinito, Nunquam, musica da camera (Sonata per vl. e pf., Quartetto per archi, varie liriche), una commedia giocosa in tre atti, La serenata al vento, su libretto di Veneziani.
Presentata a un concorso bandito dalla Scala per un’opera nuova da rappresentarsi nella stagione successiva (1938), la Serenata, per confidenziale ammissione di un membro della giuria (Pick-Mangiagalli), fu ritenuta la migliore ma l’annuncio ufficiale, atteso per la primavera del 1938, non giunse mai e nessun lavoro presentato fu giudicato degno di esecuzione; come l’autore temeva, sopraggiunsero le leggi razziali, poi la guerra: il musicista scrisse ancora molto ma in pura perdita e senza speranza di essere eseguito (il poema sinfonico Come all’ultimo suo ciascun artista, titolo postumo; l’opera drammatica Shylock ispiratagli dalla persecuzione antisemita e rimasta incompiuta; un Preludio e fuga per organo). Per vivere accettò di lavorare anonimamente o sotto altro nome (sua è la traduzione ritmica delle Beatitudini di Franck): vicissitudini, fughe, arresti ne stroncarono la fibra. Si spense a soli quarantotto anni lasciando l’ultima sua opera, il Salmo per coro e orchestra, come estrema testimonianza di artista e di uomo.
Questo importante e conclusivo lavoro, messomi a disposizione qualche anno fa dall’avvocato Bruno Finzi, figlio del compositore, costituì più che una scoperta per me: fu un problema serio, mi fece riflettere e dubitare. Ragioni d’ordine formale lo annoverano fra quei molti lavori ispirati ai salmi davidici di cui è piena la letteratura musicale fra le due guerre (da Stravinsky a Petrassi) ma stilisticamente il Salmo si situa in posizione defilata, smentendo alla lettura ogni riferimento preciso, che pure si intravede (il Parsifal, il San Sebastiano di Debussy, qualcosa dell’orchestra di Respighi, alcuni “gesti” straussiani...) e collocandosi piuttosto a ridosso di alcune esperienze teatrali dell’epoca (non Puccini e i veristi però, ma Zandonai, tanto ammirato da Finzi, cui il Salmo deve, con discrezione, talune atmosfere timbriche).
Resta comunque aperto il problema delle fonti: Finzi conosceva e ammirava Stravinsky e non gli sarà sfuggita l’importanza della Sinfonia di salmi del cui ricordo però, significativamente, non v’è traccia nel Salmo; dubito che conoscesse il Psalmus hungaricus di Zoltàn Kodàly che, ad onta dell’impiego di un testo che non è quello di Davide, poteva fornirgli più di una indicazione. E gli italiani? Poco o nulla per quel che riguarda i giovani, e d’altra parte non bisogna dimenticare le circostanze in cui il lavoro fu scritto (i tempi non erano certo propizi a un facile consumo di testi moderni); mancano testimonianze dirette, quali un diario, che pure sarebbero utilissime a indicare le musiche studiate, quelle ascoltate, le letture, le frequentazioni con i colleghi... e si vorrebbe indagare più a fondo motivazioni ed intenti alla luce di un epistolario che pure manca.
Quella che chiamerei “ebraicità” della condotta melodica, che si riduce poi, come è noto, a un cromatismo più o meno orientaleggiante — penso a Schelomo di Bloch — quale ci si aspetterebbe (e che soccorrerebbe), è invece del tutto assente: nella parte corale prevale una scrittura lineare, diatonica, a grandi blocchi di accordi, nella parte orchestrale risaltano invece un movimento continuo, armonie ricercate, dissonanze spesso accentuate dai timbri contrastanti; sul piano dell’armonia l’impianto tonale è sempre indicato in chiave (come nella coeva Missa solemnis di Casella) ma Finzi lo “smentisce” spesso con curiose contraddizioni (ad es. diesis in chiave e bemolli in battuta) che dimostrano una inquietudine appena temperata dalla staticità della condotta vocale; ma non mancano distensioni, accordi di sapore quasi romantico che giungono a sottolineare la conclusione di una progressione in crescendo, con esiti, si vorrebbe dire, brahmsiani.
Tutto è però rivissuto in maniera personale, è una sorta di rifusione d’un materiale di varia provenienza che sembra lasciarsi identificare e ogni volta rimanda ad altro: che è tipico degli eclettici di razza. Il contrappunto, assai discreto, si limita al consueto gioco delle entrate successive riducendo al minimo l’impiego di formule “dotte”, mentre sono privilegiati unisoni e concatenazioni di sapore vagamente modale a suggerire atmosfere arcaiche. Ma Finzi rinuncia agli allettamenti sia del gregoriano sia di un madrigalismo allora di moda, in nome di una robusta concezione corale che, se rimanda chiaramente alla pratica teatrale del tempo, non per questo ne adotta gli abusi, serbando sempre decoro di scrittura e raffinatezze da “coro a cappella”: sfruttamento della tecnica “a bocca chiusa”, impiego di voci solo nell’ambito di una sezione a sottolineare il clima intimo di taluni momenti (c’è un tenore solo in apertura del III tempo).
E’ impiegata una grande orchestra sinfonica (legni a tre, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, tuba, arpa, organo, pianoforte, una nutrita percussione); all’organo solo è affidato 1’ accompagnamento della preghiera che apre il III tempo, con rinuncia quasi totale agli interventi solistici. Finzi dimostra di conoscere i contributi coevi (Respighi) senza per questo compiacersi di sonorità troppo ricche o, al contrario, assottigliare l’orchestra a livelli cameristici, per cui ogni disposizione è preordinata ad assicurare sostegno al coro, senza mai prevaricare (autore di due opere, sapeva trattare la voce e nel 1931 aveva scritto un lavoro per voci femminili e orchestra, Il Chiostro, ove già compaiono alcune particolarità poi presenti nel Salmo). Orchestra e coro raggiungono momenti di grande, sontuosa sonorità (come nei finali del II e del IV tempo) ma l’autore sa trovare accenti delicatamente poetici nell’impiego degli archi divisi, corni con sordina, coro a bocca chiusa (finali I e III).
Finzi rinuncia a servirsi di un particolare salmo biblico (come avviene in Bruckner, Salviucci e Petrassi) e neppure contamina più salmi (come in Stravinsky); preferisce “salmodiare” egli stesso, diciamo così, scrivendo alcuni versetti colmi di giubilo e di grazie, perfettamente rispondenti alle sue esigenze d’ordine formale: infatti, se pure articolati nei quattro movimenti che costituiscono il Salmo, i versetti di Finzi esprimono un solo concetto di esultante gratitudine.
I (calmo e sereno) “Benedetto chi entra confidando in Dio, vi benedica Iddio dalla Sua santa sede.”
II (ritmato e deciso) “Il Signore è Iddio, Egli ci sostiene; recate le anfore di rendimento di grazia agli angoli dell’altare.”
III (lento) “Mio Dio tu sei, ti presterò omaggio, mio Dio, io ti esalterò.”
IV (con impeto) “Rendete omaggio a Dio; Egli è benigno, incessante è la Sua misericordia, gloria a Dio, Amen.”
Diviso in quattro brevi tempi che alternano classicamente andamenti contrastanti, il Salmo presenta qualche affinità formale con la Sonata (I tempo), con lo Scherzo (II), con il Lied (III), con il Rondò (IV) e può far pensare ad una “Sinfonia corale” o meglio ad una “Cantata sinfonica” sul tipo del Lobgesang di Mendelssohn (dove però il coro è impiegato solo nell’ultimo tempo, mentre Finzi colloca voci e strumenti su un piano del tutto paritetico) ; ma l’accenno a un impianto formale classico si limita a suggerire un percorso di tipo sinfonico che poi l’autore trasforma continuamente, in piena libertà: alcuni temi vengono ripresi letteralmente, senza modificazioni, intere sezioni ripetute integralmente, ma con diversa coloratura timbrica.
Il ricorso tematico è presente nel I movimento, ove manca una introduzione orchestrale e i tenori soli, sostenuti dagli archi e dai corni con sordina, svolgono fin dalla prima battuta ampie volute ascendenti: tutto il materiale tematico, esposto in questa prima parte e che l’aggiunta del coro al completo e via via di tutta l’orchestra porta a un alto grado di tensione, sarà ripreso al termine della concitata sezione centrale (piena di echi straussiani e dell’ultimo Wagner) sotto un segno opposto: pianissimo, ed estinguendo a poco a poco ogni sonorità.
La forma dello “Scherzo sinfonico”, cara ai compositori della generazione di Finzi, viene impiegata nel II movimento che raggiunge momenti di grande virtuosismo orchestrale: il coro scandisce una potente invocazione a Dio mentre in orchestra si avvicendano tre nuclei tematici importanti: uno squillo di trombe e corni seguito da un minaccioso inciso dei “bassi” (controfagotto, violoncelli, contrabbassi), una fanfara di ottoni su ritmo puntato dei legni, una combinazione dei due precedenti, sino a una conclusione di grande sonorità.
Coro a bocca chiusa e tenore solo (uno dei tenori del coro, giova sottolineare) aprono il III tempo, una dolce preghiera che l’organo circonda di echi misteriosi nel registro medio-grave mentre la grande espansione lirica che segue e che sfocia in una perorazione affidata agli ottoni segna l’apice espressivo del brano ma non la sua conclusione: che avviene invece con un ritorno al clima iniziale, “diminuendo e morendo”. Un “motorismo” implacabile sottende a tutto il IV tempo, un aggressivo 2/4 “con impeto” in cui l’omaggio a Dio è espresso in toni quasi minacciosi, che ricordano per affinità il salmo guerriero n. 94: “Iddio delle vendette, apparisci nel tuo fulgore! Lèvati o giudice della terra, rendi ai superbi la loro retribuzione”.
Solo nel “Largamente” finale si placa il martellare delle semicrome, nel grande corale che chiude il lavoro in un clima festoso, in un luminoso si maggiore:
L’ambito tonale in cui il Salmo si svolge segue dunque un percorso che dal mi minore iniziale approda alla quinta passando per il re bemolle maggiore del II tempo e il fa diesis maggiore del III, i movimenti estremi fungendo dunque da cardine dell’intera composizione.
Il materiale del Salmo in mio possesso comprende la partitura d’orchestra completa e lo spartito per canto e pianoforte, purtroppo mùtilo del finale: poiché l’autore per ragioni di spazio ometteva spesso di indicare in partitura la parte del coro rimandando allo spartito con la dicitura “vedi c(anto) e pf(orte)”, è accaduto che, per ciò che riguarda il finale, tale postilla risultasse inattuabile.
Ho proceduto al lavoro di integrazione seguendo il procedimento che suggerisce un risultato identico a parità di situazione e cioè dopo aver attentamente analizzato le pagine precedenti, metodo che, se presenta gravi incognite poiché priva a posteriori l’autore del diritto di variare, offre una garanzia stilistica di coerenza: il finale suggerisce chiaramente un procedere per blocchi di accordi perfetti.
La grafia accurata di Finzi e un buon lavoro di copiatura condotto sul manoscritto permettono oggi di disporre di un materiale per quanto possibile privo di errori; un attento lavoro di integrazione rispettoso al massimo grado delle intenzioni dell’autore ne consente la lettura nella sua completezza, ma tutto ciò risulterebbe vano senza una esecuzione che verificasse all’ascolto la validità che ho cercato di dimostrare in queste note. C’è da augurarsi che occhi attenti leggano, rendendo possibile l’avverarsi di questa speranza: poiché al di là di ogni sterile entusiasmo per il “capolavoro ritrovato”, che ripugnerebbe al signorile riserbo dell’autore del Salmo, conta ben più l’attenzione operativa dei direttori artistici e di quella parte della critica che è sensibile ai valori del nostro ‘900 musicale.
Gian Paolo Sanzogno
Articolo tratto da "La Rivista Illustrata del Museo Teatrale alla Scala" - Inverno 1992/93 .
Il Salmo di Aldo Finzi, diretto dal M° Gian Paolo Sanzogno è stato eseguito in prima assoluta a Milano il 22.2.1996 nella Sala grande del Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. I Cori civici di Milano erano diretti dal M° Mino Bordignon.
lunedì 5 luglio 1993
Il salmo di Aldo Finzi: piu che una scoperta